Plautus in der Frühen Neuzeit

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Thomas Baier / Tobias Dänzer

Plautus in der Frühen Neuzeit

Narr Francke Attempto Verlag Tübingen

Inhalt

Fußnoten

Camerario editore dei Menaechmi

Su Camerario come editore plautino si vedano Ritschl 1868, 95–114 e Id. 1877, 67–119; Goetz 1886, 629–631; Sandys 1908, 266–267; Prete 1978, 223–230; Stärk 2003, 235–248; Schäfer 2004, 437–476; Hardin 2018, 62–63. Le immagini presenti in questo articolo sono riprodotte per concessione della Biblioteca di Heidelberg e della Biblioteca Apostolica Vaticana: ogni diritto è riservato.

Per la bibliografia relativa ai due codici rinvio a Tontini 2002a, 354 e 366. In B (Città del Vaticano, Bibl. Apostolica, Pal. lat. 1615) i Menaechmi occupano i ff. 97v–108r e in C (Heidelberg, Universitätsbibl., Pal. lat. 1613) i ff. 40v–59r.

De editione et emendatione Fabularum Plautinarum, ad inclitum puerum, illustriss. Principem, Georgium Fridericum Marchionem Brandeburg. etc. Ioachimi Camerarii Pabeperg. Prooemium, 11–12.

Prooemium Ioach. Camer. in fabulas (de fabulis nell’ed. del 1552) Plautinas, ad illustriss. pueros Francisc. Othonem et Fridericum fratres, Ernesti FF. Principes Brunsuic. et Luneburg, 1 (16 nell’ed. del 1552).

Zangemeister 1900, II.

La ricerca prende le mosse dall’edizione del 1530 e dalle ‘tracce’ che il filologo lascia sul codice B, per poi allargarsi alle sue successive edizioni dei Menaechmi (1535, 1536, 1542, 1552, 1559, vd. infra n. 16) e ai segni del lavoro del Camerario sul codice C (dopo il 1545).

Il lavoro su B e l’edizione del 1530

Due commedie, Menaechmi e Mostellaria, particolarmente interessanti perché appartenenti alle ‘dodici’, con un testo che, per le note vicende della tradizione plautina, aveva ricevuto un’attenzione minore da parte degli studiosi. In particolare i Menaechmi sono forse tra le commedie più apprezzate e rappresentate nel corso del Rinascimento; si veda la lucida analisi di Guastella 2007, 69–150. A testimonianza di questo straordinario interesse, si ricordi la particolare fortuna della commedia nella tradizione umanistica, commedia che o è l’unica delle dodici a legarsi alle prime ‘otto’ o fa parte comunque di una miscellanea plautina o è trasmessa addirittura da sola in un codice miscellaneo: Tontini 2002b, 71. Per la Mostellaria l’attenzione potrebbe essere invece derivata dall’esigenza di mettere ordine in un testo che presenta molte lacune e per buona parte è caratterizzato da uno sconvolgimento di gruppi di versi, causato probabilmente da uno scompaginamento di fogli già nell’archetipo, come farebbe pensare il numero di versi coinvolti che è sempre di circa quaranta o multiplo di quaranta. Ci si riserva di indagare in futuro il lavoro del Camerario come editore della Mostellaria, commedia che nel codice B è caratterizzata – in misura preponderante rispetto ad altre – da numerosi interventi del filologo, come integrazioni al testo negli spazi vuoti lasciati dal copista (B ff. 91v ll. 40–41, 92r ff. 8–9 e 50–52), glosse a margine (B f. 90v. ll. 2–4) e indicazione di spostamenti di versi (B f. 93v).

Degna di nota la critica ai correttori, istos temerarios mutatores, che, fere indocti, divengono corruttori del testo: non intelligunt, sic deformant ut neque qualia fuerint omnino, neque qualia sint saepe appareat.

Molti passi in cui il filologo segue il codice non vengono infatti segnalati nell'edizione.

Bandini 2020.

Come è consuetudine dell’Editio Plautina Sarsinatis, a prescindere dalla identità dei singoli copisti, la sigla B1 indica la prima mano contrapposta alle sue correzioni, probabilmente in scribendo (B2), e a quelle dei revisori (B3). Sebbene Questa 1995 citi due revisori (B3 e B4) che avrebbero operato in un lasso di tempo analogo – sulla scorta di quanto aveva messo in evidenza Questa 1985, 106–118 – si preferisce per chiarezza usare la sola sigla (B3) per quegli interventi che riguardano anche i Menaechmi.

Paiono a questo proposto significative le parole che Fabricius rivolge a Camerario in una lettera del 1549: Plautinas aliquot comoedias recentis editionis tuae, cum Aldino et Parisiense exemplo contuli, et cum in lectione veteri. […] Successus huius operae maxime in bonis exemplaribus potius est, et manuscripta non raro sunt impressis meliora, propter correctorum quorundam imperitiam et temeritatem. Si potrebbe ragionevolmente ipotizzare che il modus operandi del Camerario sia affine a quello dell’amico studioso? Si veda in questo volume il lavoro del Prof. M. Fontaine.

Per fornire un quadro della tradizione editoriale precedente a Camerario, cito qui brevemente editori, città e anno di pubblicazione: Merula (Venezia 1472); Scutarius (Milano 1490); Saracenus-Valla (Venezia 1499); Pius (Milano 1500); Beroaldus (Bologna 1500); Pylades (Brescia 1506); Mulingus (Strasburgo 1508); Ugoletus (Parma 1510); Veneta (Venezia 1511); Charpentarius (s.l. 1513); Angelius (Firenze 1514); Aldina (Venezia 1522); Cratander (Basilea 1523); Stephanus (Parigi, 1530).

L’edizione dei Menaechmi del 1530 viene ristampata in forma anonima negli anni 1535, 1536 e 1542: Hervagius (Basilea, 1535), Georgius Mai.1 (Magdeburg 1536) e Georgius Mai.2 (Magdeburg 1542), cf. Ritschl 1868, 95–98. La commedia viene quindi riedita in Camerarius (Basilea, 1552) e Fabricius (Basilea, 1558). È degno di nota che le edizioni del ‘30 e del ‘52 presentino alcune discrepanze, a testimonianza di un continuo lavorio del filologo sul testo: si vedano qui di seguito i ‘ripensamenti’ rilevati ai vv. 90, 196, 387, 405, 1065 e nella suddivisione in atti. A questo riguardo pare significativa anche l’insoddifazione che il Camerario, nelle lettere rivolte a Hervagius, mostra per i continui errori presenti nelle sue edizioni: si veda in questo volume il lavoro del Prof. M. Fontaine.

Città del Vaticano, Bibl. Apostolica, Vat. lat. 3870. Il codice, di proprietà del Cardinal Orsini, riporta alla luce il secondo ‘tomo’ delle commedie plautine, quelle ‘dodici’ di cui non si era avuta più notizia dal X–XI sec., ed è quindi alla base della loro tradizione nell’Umanesimo: Questa 1985, 118–124, 132–133, 147–167, 171–208 e Tontini 2002a, 472–477. Oltre agli interventi dello stesso copista (D2), è attivo lungo tutto il codice un revisore (D3), al quale si debbono anche titoli di scena e alcune notae personarum; ad essi si aggiunge infine la mano di Poggio Bracciolini (D4) che rivede l’Orsiniano tra la fine del 1433 e la prima metà del 1434: Questa 1985, 123–124. Gli interventi di Poggio (D4) sono come noto successivi e non legati all’immediata circolazione del codice. I Menaechmi occupano in D i ff. 112v–131v.

Ci si è serviti della trascrizione di Studemund 1889 (A) e delle letture riportate in apparato da Schoell 1889 (As).

1. Accordo tra B e l’edizione del 1530

Il filologo riporta alla luce per la prima volta il v. 6, restituendo l’integrità dell’argumentum acrostico, per il quale risulta logicamente fondamentale la presenza del verso.

Nel margine destro del codice si legge uerum, verisimilmente in alternativa a u(ostr)um del testo: trattandosi di una scrittura posata con calamo a punta mozza e dal tratteggio gotico molto rigido (che mostra delle somiglianze con la nota di possesso al f. 213r) non pare possibile attribuire questa glossa al Camerario – come pensava invece Schoell 1889 ad loc.

In questo caso, nella tradizione editoriale precedente al Camerario, il solo Scutarius si distingue con un inaspettato Epidamniensis.

L’umanista mostra una certa attenzione per la metrica plautina, non solo dando indicazioni dei versi che compongono le scene delle commedia, ma anche in talune scelte ecdotiche (ma vd. infra v. 1065). In questo passo la necessità del penultimo elementum breve (Ĕpǐdāmnǐum), sembra far sì che Camerario accolga per la prima volta a testo il termine tràdito da B (e da C) Epidamnium, più comunemente riconosciuto come aggettivo. Epidamnum di D, e da D passato alla tradizione umanistica, è ametrico. Lo studioso ha forse valutato la possibilità di ammettere una doppia forma del nome della città: Epidamnius (33) accanto al più comune Epidamnus (6, 49, 51, 69, 72, 230, 263, 305, 379, 380), forse ipotizzando che dall’inusuale Epidamnius si potesse formare l’aggettivo Epidamniensis (stampato dal Camerario ai vv. 32, 57, 999) allo stesso modo in cui da Massilia deriva Massiliensis (235). Il verso 33 sarebbe tuttavia l’unica attestazione in tutta la latinità del nome della città nella forma Epidamnius, da ritenersi pertanto sospetta (la forma Epidamnus ricorre anche in Livio 43, 21, 3; Varrone rust. 2, 4, 16; Mela 2, 56; Lucano 2, 622; Petronio 124, 292; Plinio nat. 3, 145). Si segnala a questo riguardo la proposta avanzata da Seyffert 1867, 451, Epidamn(um) <ĕum>, che presupporrebbe un errore per aplografia e un comune scambio in capitale E/I.

L’origine della lezione errata rapide è di natura paleografica e riconducibile a D: il codice presenta infatti il verso, omesso nel testo, in fondo alla pagina, preceduto da un segno di richiamo replicato anche nel punto in cui va effettivamente inserito; tale verso, scritto con un ductus veloce, ha la parola rapidus abbreviata per troncamento, con al posto però del più consueto segno ricurvo per –us, un trattino orizzontale che taglia l’asta della d: una d tagliata è abbreviazione in epoca umanistica più comunemente usata per de; sulla storia della tradizione di Men. 65 si veda Bandini 2012, 13–23.

Sul piano della tradizione del testo in epoca umanistica, va segnalato che questo passo è un locus importante per quanto concerne le ricerche sull’origine dell’Itala recensio: ha infatti permesso di individuare due famiglie di codici ben distinti all’interno del complesso e stratificato quadro dei recentiores: Cappelletto 1988, 234–239.

Nel 1530 il filologo accoglie a testo la forma ‘normalizzata’ edat – attestata dal revisore di B e dalla precedente tradizione editoriale – che in calce all’edizione (nelle Errata Festinatione excusoris admissa, et alia paucola digna, quae annotarentur subicimus) corregge in edit, forma arcaica del congiuntivo presente riportata dalla prima mano di B. Non stupisce quindi che edit ricorra anche in Hervagius e Georgius Mai.1–2.

Il mancato intervento potrebbe essere dovuto alla difficoltà di interpretare la struttura metrica del verso, cho2, di un canticum (110–134).

Il filologo in questo caso – forse condizionato dalle metafore belliche presenti nel passo – tiene tanto in considerazione il codice B da stampare pro Ilio; nelle Annotationes, che si trovano in calce all’edizione del ‘52, motiverà tale scelta a p. 503: «pro Ilio autem iocans, id est pro pugnis Iliacis, et Troiae expugnatione se dicit potare velle».

Camerario sembra testimoniare l’oscillazione tra le lezioni dei codici B e C nell’edizione del 52 – quando appunto sappiamo che ha certamente C; nelle Annotationes p. 503 infatti scrive: «sit amentorum: id est illecebrarum, quibus attrahatur cibus. In altero tamen libro annotatum erat, omentorum». In questo caso l’umanista pare quindi designare come alter liber il codice B (qui corretto dal copista in scribendo: B2).

Sulle lineolae vd. infra 25–40.

Il segno α non sarebbe qui del tutto appropriato, non essendoci una piena corrispondenza tra il testo di B (pinthia) e quello dell’edizione (Panthia). A riguardo nelle Annotationes p. 504, Camerario scrive: «nos quidem scripturam veterum librorum exprimendam curavimus, alii quid mutarint, ipsi viderint».

Camerario ritocca la lezione responsanti loquere del codice B (così corretta dal revisore medioevale B3) con responsant? eloquere, ipotizzando quindi un facile scambio e/i e la corretta divisio verborum: di fronte a un restauro rispettoso dei criteri paleografici come questo ci si aspetterebbe di trovare in margine un asterisco.

In questo caso Camerario interviene nella distribuzione delle battute, ripristinando la situazione del codice.

Anche qui il segno α pare essere usato in modo improprio a fronte di un intervento interpretativo suggerito dal criterio paleografico.

Un altro intevento che si sarebbe dovuto indicare con *.

In questo caso dalla lettura del codice viene recepito il solo immo.

Anche qui il segno α è usato in modo improprio.

Di nuovo, non pare qui del tutto coerente l’impiego del simbolo α.

2. Restauri suggeriti dai vestigia veteris scripturae

Non possiamo sapere a quale tra i due interventi il filologo si riferisca con il simbolo *; si può tuttavia ipotizzare che sia stata la presenza del nominativus pendes a arg. 1 Mercator Siculus ad averlo portato a banalizzare il testo.

Tuttavia nelle Annotationes p. 503 in riferimento a ut fieret Camerario scrive: «vel ut in altero, hodie id fiet (!)». Dove sia l’alter è qui difficile dire.

In questo caso a margine del verso si trova sia l’asterisco che α. L’espressione quas Ioui uolo ricorre anche nelle edizioni di Hervagius e Georgius Mai.1–2.

L’impaginazione del testo, corretta nell’Ambrosiano, mostra dei problemi nei Palatini, che presentano la parte finale del v. 258, natio epidamnia (variante di natio in epidamnieis di A), alla fine del verso precedente (257 ubi–gemes); segue nella linea successiva nam–hominum, prima parte del verso 258. Si tratta di un errore peculiare della famiglia Palatina (che avrà come conseguenza che natio epidamnia si trovi nella tradizione editoriale all’inizio del verso 258). L’errore nell’archetipo Palatino si potrebbe spiegare come un eventuale accorpamento a monte dei vv. 257 ubi–gemes e 258 nam–hominum con relativa coda natio epidamnia, scritta dal copista in una posizione poco chiara e non interpretata correttamente. Va segnalato come il Camerario, ovviamente indipendentemente dall’Ambrosiano, restauri la sequenza corretta del testo.

Nelle Annotationes p. 504 il filologo giustifica così la sua scelta: «in nostri erat heris: nihil enim lubet dissimulare, sed haec scriptura haec mihi videtur vera».

Difficile dire quali vestigia abbia qui seguito.

Sebbene le edizioni moderne di riferimento (Schoell 1889, Leo 1895, Lindsay 1904, Ernout 1936, Gratwick 1993 e de Melo 2011) stampino abstuli (congettura di Onions 1885, 74), le numerose ricorrenze del nesso dare pallam (cf. Men. 394 398 426 508 678 683) rendono plausibile la proposta del Camerario mihi dedit (già accettata da Ritschl 1851).

3. Congetture dubbie

I vv. 164–165, di cui si leggono solo esigue tracce nell'Ambrosiano, sono presentati nei Palatini come un unico verso, facere coniecturam captum sit collegium, palesemente corrotto: la scena è in settenari trocaici e il verso mancherebbe di due elementi. Nelle Annotationes p. 503, Camerario, in riferimento a questa congettura, scrive: in veteribus libris, augurum non reperitur, ideoque de hoc versu quaeretur. Sententia tamen sat videtur bella esse, ut dicat, iam se de illa palla relatum esse velle ad collegium augurum, divinaturo parasito.

Accanto al verso si trovano sia l’asterisco che il segno >->.

Come si è visto, i simboli non paiono essere utilizzati sempre in modo del tutto coerente ai vv. 409/10, 621, 745, 814, 859, 963 e 1010. Tali segni diacritici (α * etc.), che il filologo usa in questa prima edizione, non si ritroveranno nelle edizioni parziali successive (1545 e 1549), né in quelle complete del 1552 e del 1558.

Le lineolae

Questi interventi non hanno nulla a che vedere con quelli puntuali ed essenziali del revisore medioevale (B3) – come possono essere, per esempio, i segni di espunzione costituiti da puntini posti sotto le lettere – che seguono una tradizione consolidata nell’ambito della correzione del testo, il più delle volte come parte integrante del lavoro di produzione del manufatto.

Si tratta di un’ipotesi prospettata già dallo Zangemeister 1900, XIV, che, per quanto riguarda il codice C, sospettava appunto che tali lineolae potessero essere attribuite al Camerario. Un’indagine in tal senso è già stata condotta in relazione alla Rudens: Bandini 2014, 109–123. Conto, prossimamente, di estendere il lavoro anche alle rimanenti commedie.

Lineola nel solo B

Si segnala che iam ricorre anche nelle edizioni di Hervagius e Georgius Mai.1–2.

Come si vede, nell’edizione del ‘52 il filologo torna a dare più importanza alla tradizione editoriale con seruasti rispetto alla lezione manoscritta seruauisti, precedentemente accolta nel testo e che il criterio metrico gli avrebbe dovuto suggerire di mantenere (seruauisti si ritrova anche nelle edizioni di Hervagius e Georgius Mai.1–2).

Lineola nel solo C

Una particolare attenzione merita il termine coniecturam: l’Ambrosiano riporta coiecturam (nella scrittura in capitale si deve pensare o alla caduta della lettera –n– o alla presenza della grafia coiecturam). Nell’unica altra attestazione di tale parola nell’Ambrosiano (Rud. 771) si legge coniecturam (negli altri passi in cui ricorre la parola il Palinsesto purtroppo non ci soccorre: Cas. 224, Cist. 204, Curc. 246, Poen. 91, Rud. 612). Degno di attenzione anche Rud. 612 dove il ramo Palatino presenta una situazione interessante: CD hanno coniecturam e B col ecturam, lasciando aperta la possibilità che nell’antigrafo ci fosse coiecturam (tanto che Schoell 1889 stampa coiecturam ammettendo all’interno della stessa commedia, la Rudens, e in bocca allo stesso personaggio che racconta lo stesso episodio, Demone durante l’interpretazione del sogno, la presenza delle due grafie; diversamente Leo 1895 e Lindsay 1904 normalizzano sempre in coniecturam). Si può inoltre segnalare che anche il palinsesto A (Milano, Bibl. Ambrosiana, E 147 super. + Vat. Lat. 5750) delle Epistulae di Frontone (del V sec. in onciale, cf. CLA III 27) al passo 180, 20 (secondo quanto scrive in apparato Van Den Hout) ha coiecturam: la presenza di questa grafia in un codice in onciale, e in un autore che, come noto, ‘plautineggia’ rafforza il sospetto che potesse trovarsi in Plauto la compresenza della doppia grafia coniecturam/coiecturam. Tale ipotesi sarebbe avvallata anche dalla testimonianza di Serv. ad Aen. 9, 411 ‘conicit’ pro ‘coicit’, nam ‘conicit’ antiquum est.

In questo caso il filologo potrebbe sottolineare in C – codice su cui, come supposto, presumibilmente lavora dopo il 1545 – una lezione evidentemente degna di nota, in quanto conferma il testo da lui stampato nel 1530.

Si segnala che iam ricorre anche nelle edizioni di Hervagius e Georgius Mai.1–2.

A margine del codice B, una mano dal tratteggio gotico appunta susurra, forse glossa di spiegazione per suscire.

La lineola indica qui la mancata divisio verborum.

Camerario nel ‘52 spiegherà la scelta testuale nelle Annotationes p. 504: «scriptura manifesta in libro nostro, et vera». Il filologo si sta evidentemente riferendo al codice B grazie al quale parrebbe aver intuito il facile scambio c/t. Si tratta di uno dei tanti casi in cui il fondamentale apporto del codice non è però segnalato ai margini dell’edizione del ‘30.

Il problema è di difficile soluzione: delicato infatti è il caso della sorda aspirata ph, che come il ch e il th, di sicuro non è grafia originale, ma da secoli ospite stabile e segno, a volte ineliminabile, della storia del testo: Danese 2006, 37–66. Particolarmente complesso è quindi il restauro dell’ortografia di termini rari, e quindi non capiti e mal trascritti, come phrygionem, cf. ThlL X/1 2058 42–67. Il termine ricorre in Plauto solo nei Menaechmi per cinque volte (426, 469, 563, 618, 681) e in questo caso, l’unico in cui è presente l’Ambrosiano, significativa pare la concordanza con i codici C e D sulla f del termine (e solo in parte confermata dalla tradizione indiretta per il v. 469: Non. 5, 862 L. frigionem). Il sospetto è che si tratti di una scriptio antica e che nell’archetipo il suono fosse rappresentato da una sola lettera: dal momento che uno scambio tra F e P aperta è frequente in capitale, si potrebbe forse anche supporre la lettura originaria prigionem adombrata dalla situazione paleografica della tradizione manoscritta.

In questo caso si potrebbe sospettare che Camerario abbia confrontato i due codici: segna infatto in C un termine – già adottato dalla tradizione editoriale precedente e dalla sua edizione del ‘30, che viene invece omesso in B.

Camerario preserva la scansione del settenario trocaico anteponendo in chiusa il tuum tràdito all’inizio del verso seguente.

Lineola in entrambi i codici

Sulla confusione habeo/abeo, vd. Raffaelli 2009, 324 e n. 21.

Degna di nota la volontà di evidenziare la buona lezione di C, già adottata nella tradizione editoriale precedente e nell’edizione del Camerario del 1530.

Nel ramo Palatino il gruppo di versi 1037–1043 viene trascritto due volte (una prima volta dopo il v. 1028 e una seconda nel punto corretto).

Quello ortografico è infatti un problema che merita un’attenzione a parte: come noto, le commedie plautine sono caratterizzate da arcaismi sentiti nel corso della storia del testo come ‘erronei’.

La sottolineatura è presente nel solo B anche quando, come in questi casi, il medesimo errore ricorre anche in C.

Ai vv. 405 e 1065 le lezioni sottolineate vengono recepite nel testo dell’edizione del ‘30, ma non in quello del ‘52: non possiamo escludere che il Camerario sia tornato sul codice e abbia segnato le lezioni come sospette.

Altri interventi

B presenta otto senari accorpati su quattro linee con spazio intermedio, C ha un diverso accorpamento con coda scritta alla fine della linea superiore preceduta da segno paragrafale.

In questo caso si tratterebbe di un intervento di Camerario con un inchiostro dalla tonalità rossiccia tendente al violaceo (diversa, sembrerebbe, da quella del rubricatore e correttore B3), che viene impiegato dall’umanista in altri punti del codice B (si vedano e. g. B ff. 43r l. 40, 91v ll. 40–41, 92r ll. 9–10, 29–31, 50–52).

In B f. 104v l. 7.

Indicazione di atti e scene

Ringrazio qui il Dott. Ulrich Schlegelmilch (Universität Würzburg) per avermi fornito la possibilità di esaminare alcune lettere del Camerario e vagliare così la paternità della mano presente nei codici B e C.

Come noto, la divisione in atti delle commedie plautine era assente nell’antichità e ignota alla tradizione tardoantica e medioevale del Sarsinate. Tale ripartizione – che non ricorre nell’editio princeps del 1472 – è stata introdotta in modo sistematico in epoca moderna dal Pius – se pur nel solo commento e non ancora recepita a testo. Si può ipotizzare che l’introduzione di tale ripartizione sia stata condizionata dalla conoscenza dell’Ars poetica di Orazio e del teatro senecano, e che sia avvenuta sull’esempio del commento di Donato a Terenzio e, presumibilmente, anche sulla scorta del lavoro già iniziato dagli umanisti, di cui si trovano tracce parziali e sporadiche nei manoscritti di questo periodo: Questa 1985, 243–269; Cappelletto 1988, 230–233; Tontini 2002a, 519–520; Ead. 2002b, 86–88; Ead. 2009, 463–464. Ad oggi il primo manoscritto che attesta questo tipo di interesse, per quanto riguarda naturalmente le sole ‘otto’ commedie, è il Laur. 36.44 scritto da Francesco da Buti nel 1371 (vd. Tontini 2009, 109–117). Per quanto concerne invece le ‘dodici’, e in particolare i Menaechmi, si deve segnalare nel Barb. Lat. 97 la presenza della mano di un secondo revisore che al f. 27r (Men. 226), annota actus secundus (vd. Tontini 2009, 280–288); si deve poi ricordare che il codice Laur. 36.36, scritto verso la fine del Quattrocento dall’umanista Tommaso Fedra Inghirami, riporta la divisione in atti in tutte le venti commedie (vd. Tontini 2009, 33–44). Per quanto concerne invece la tradizione editoriale, Beroaldus, Pylades, Mulingus, Ugoletus, l’editio Veneta, Charpentarius, sulla scorta dell’editio princeps, continuano a presentare un testo senza alcuna divisione, non tenendo conto del lavoro del Pius; si deve arrivare all’Angelius per avere una scansione scenica completamente nuova, accolta anche dagli editori successivi (Aldina, Cratander, Camerariusa, Hervagius, Georgius Mai.1–2).

Annotazioni

Non tengo conto di una nota in B f. 98 l. 18 (sopra puer e che farebbe pensare ad una glossa esplicativa) di difficile interpretazione, non credo attribuibile al Camerario per il tratteggio corsivo rigido, dovuto a una penna a punta mozza, vd. supra uerum (n. 20) e susurra (n. 55).

A margine del verso mancante si può notare un asterisco seguito da Circu(m) etc., appuntato da una mano molto corsiva, con C maiuscola e segno abbraviativo della m in legatura con l’ultimo tratto della u, da attribuire presumibilmente al Camerario.

Si tratta di uno di quei casi in cui l’apporto del codice risulta fondamentale per il restauro di un verso altrimenti corrotto in tutta la tradizione editoriale precedente, tuttavia, come spesso accade, non segnalato dal simbolo α ai margini dell’edizione del ‘30.

In C f. 48r l. 18.

1. The title explained; a proposition; the argumentum

Printed in ch. 5 and ch. 8 below. – This exhausting investigation would have been impossible without the help or advice of David McMurray, Elisabeth Lobkowicz, Soňa Černocká, Kamil Boldan, Thomas Safley, Marion Gindhardt, and Lucy Plowe. – All epigrams and translations are my own.

Paragraphs 1–2: “…Visum est Moriae Encomium ludere. Que Pallas istuc tibi misit in mentem? inquies. Primum admonuit me Mori cognomen tibi gentile, quod tam ad Moriae uocabulum accedit quam es ipse a re alienus.” – Erasmus did not know it, but Pindar invented this gambit by associating Hiero and Chiron in Pythian 3, 1 (Pelliccia 2017).

So Zangemeister 1900, iv.

Mazzi 1893, 153: “a schiena di mulo” (“on muleback”).

Mazzi 1892, 282: “e quando mi vedono, pare che vedano un orso o un leone” (“and when they see me, it seems they’re seeing a bear or a lion” – a pun on Leo Allatius).

Asportat: Zangemeister 1900, i, iv, xiv.

Camerarius 1566 (= Ritschl KS 3, 72): “Nactus fueram exemplaria duo antiqua ab indoctis librariis exarata.”

2. The Standard Account

As Stärk (2003, 289) documents, J.J. Scaliger called him unicus Plauti Aesculapius (Plautus’ one and only Asklepios), J.P. Pareus, the Plauti sospitator princeps et unice unicus (Plautus’ first and foremost savior), G.E. Lessing claimed “we owe a greater debt to him than anyone for improving the text of Plautus,” and Friedrich Ritschl (1806–1876) said that in Camerarius’ work, Plautus comes out looking “almost like a new writer.” Compare Georg Fabricius in n. 27 below.

Hardin 2017. Hardin relies on many short papers found in Ritschl’s kleine Schriften. I cite them here by the abbreviation KS rather than their titles.

Hardin 2012, 337–347, and Hardin 2017.

Stockert 2014.

3. The Camels Described and Distinguished; Their Fate

Zangemeister 1900, ii–iv, correcting Ritschl KS 2, 126.

He bought the Vetus for 14.20 coronati and the Decurtatus for 11.90. Zangemeister 1900 claimed that in 1892, those 26.10 coronati were worth the weight in gold of nine German marks. Thomas Safley, however, tells me that an equivalence is impossible to calculate because even if the coronati were Flemish Couronnes d’or au soleil (as seems likely), we still do not know whether they were of gold or silver, or the amount of either metal (personal communication of June 18, 2018).

Pareus 1641, preface (= Ritschl KS 2, 104): “Dehinc Veteri illi codici accessit alius membranaceus, quem eapropter Decurtati nomine insignivimus: quod duodecim duntaxat posteriores contineret fabulas.”

Zangemeister 1900, i–ii, iv.

Mazzi 1892 and 1893.

Zangemeister 1900, i–ii, iv.

Pareus 1641, preface (= Ritschl, KS 2, 104): “Optimae quidem ille [sc. Decurtatus] notae, et Veteri codici plane suppar, quin immo melior interdum, ac praestabilior.”

4. The Camels’ Origin

1552, 11–12 = 1558, 11–12. I found an apograph of the letter in Cameriarus 1586, 254r–257r (misdated in the Table of Contents to 1558). There are no textual variants in it.

Schäfer 2004 assumes the printer was at fault, but the fact that Camerarius had it printed locally in Leipzig the next year (ch. 8 below), rather than Basel, suggests he’d forgotten to mail it in the first place.

The 1545 letter (beginning “anni iam sunt”) is reprinted in his 1552 and 1558 editions, and I found an apograph in Camerarius 1586, 166r–173v. Ritschl KS 2, 100 and Hardin 2017 contextualize it.

Note how Camerarius editorializes that chain of transactions in the 1552 letter.

Ritschl KS 2, 111–112.

Zangemeister 1900, ii. Pace Zangemeister, however, the 1552 letter is not Camerarius’ first mention of the manuscript: ch. 6 below.

Bandini 2014, 115n.10. Ritschl KS 3, 54 (1848) and 90 (1871; Ritschl died in 1876).

5. Fabricius’ Letter of 1549

Cited here as Fabricius 1549.

It eventually appeared as Fabricius 1566. In the preface (dated 1554), Fabricius showers praise on Camerarius’ 1552 edition of Plautus (p. 6v): “For his outstanding industry and outstanding enthusiasm, I also owe undying thanks to Joachim Camerarius, a gentleman famed for both his polymathic learning and his supreme virtues. He has now restored Plautus’ plays so successfully that it seems greater tribute should be paid to his singular diligence in emending the text than to the labors of all others in commenting on the text.”

6. One Hump or Two?

The library today includes three incunabula and postincunabula editions of Plautus’ works, but no manuscript.

Personal communication of 1/11/2018.

Vaculínová 2005, 39; Truhlář 1894, 120–121 adds a couple details to the skeleton I have cobbled together here.

Vaculínová 2006, passim.

Camerarius 1553b, Biiir: “Habebat tum academia Lipsica doctos viros multos. […] Sed aderant tum eruditionis et humanitatis principes Io. Sturnus, Vitus Berlerus […]”.

Melchior 1615, 152.

Thus Vaculínová 2005, 37 assessing a 1561 letter from Fabricius to Matthaeus Collinus (Mitis 1562, A2v).

So I (tentatively) interpret his statements in Mitis 1563, A3r–A3v, where Fabricius contrasts Hassenstein’s scouring of Europe, Asia, and the African litoral to build up his library with his own experience of the world: “Etenim ipse, qui rerum multarum usum non habeo […].” He then adds, “Ut meae iam irascar puericię, qui non omnia cognoverim ex eius amico Sturno, ex quo, dum ludum Annaebergi privatum haberet, facile cognoscere potuissem intimos hominis [i.e. Bohuslai] sensus, et affectus.”

In 1520, several dozen volumes loaned to Martin Luther were later destroyed by fire on their way back (Boldan 2009).

Boldan 2009, 85.

7. The Czeckered past of the Decurtatus

Ritschl KS 3, 90.

Reprinted 1552, 902–909 and 1558, 902–909. I found an apograph in Cameriarus 1586, 186r–189v.

Bandini 2014, 110 n. 3.

He cites alter liber or alterum exemplar on Mercator 52, Pseudolus 182, and Persa 764, and nostri libri or uno exemplari on Persa 68a, Rudens 23, 295, 417, 918, 1012, and 1182.

8. Camerarius’ Confession

Ritschl KS 3, 67–69.

Ritschl KS 3, 68.

This fact is announced on the 1558 title page, where nonnihil momenti afferre possint echoes aliquid momenti haberet in the description of “Fabricius’ book” in Camerarius’ 1552 prefatory letter (ch. 4).

Camerarius 1553a, A2r–A3r. I also discovered an apograph in Camerarius 1586, 231r–v, and have followed its punctuation.

Emendatarum (so the apograph) is misprinted emendaturum in Camerarius 1553a.

The apograph has illa.

Indeed, the 1558 reprint did introduce many new typos.

Camerarius voices these concerns in the preface to Camerarius 1549.

The apograph omits illa.

But Camerarius did eventually continue his work on Plautus. In later years he wrote a few notes in a copy of his 1558 edition; that copy later passed to Ludwig Camerarius and then to Janus Gruter, who incorporated the notes into his own 1621 edition (Schäfer 2004, 459–464; on p. 64 he quotes Gruter 1621, 756: “Camer. in curis secundis ad Plautum, qui servantur a nepote eius V.C. Ludovico Camerario, consiliario Palatino.”)

9. Conclusion

Karin Zimmermann, personal communication of January 10, 2018.

The Reception of Plautus’ Fragmentary Plays in the Scholarship of the Fifteenth to Seventeenth Century

With exceptions, of course. Ratherius, bishop of Liège and Verona (ca. 887–974), in his Sermo de Maria et Martha 4, 116–118 (CCCM 46, p. 148 Reid), dated 965/966, claims to have read Catullus and Plautus (probably manuscripts found in France): Catullum nunquam antea lectum, Plautum quando iam olim lego neglectum (Ullman 1960, 1031: “while I read Catullus, never read before, or Plautus, long neglected”). The truthfulness of Ratherius’ statement has been questioned by Fiesoli 2004, 24–25. We should also recall the anonymous author of a letter, published by Bischoff 1932 and dated to the tenth century, which we find at the foot of the translation of the Platonic Timaeus commented upon by Chalcidius in ms. Bamberg, Staatsbibliothek, Class. 18, f. 117v (the author, who asked for a manuscript of Plautus and by mistake received one of Plato, on returning the latter writes an amusing letter in which he mentions various fragments and titles of comedies probably known from Festus).

See Fera 1990, 516.

On the link between the bio-bibliographical tradition and the collecting of fragments see Dionisotti 1997, 8–9; Petoletti 2000, 23–37.

Vincentius Bellovacensis (ca. 1190 – 1264). Cited from the printed edition: Bibliotheca mundi seu Speculi maioris Vincentii Burgundi praesulis Bellovacensis ordinis Praedicatorum… Tomus quartus qui Speculum historiale inscribitur […], Duaci, ex Officina Typographica Baltazaris Belleri 1624, lib. V cap. 55.

Gualterus Burlaeus (1275–1345?).

On Plautus pp. 334–336 Knust (the text is based on printed editions). More reliable, though less widespread, is the edition of Stigall 1956, 211–212, whose text consists of a selection of manuscripts. On the problem of attribution to Burley see Petoletti 2000, 36.

See Sabbadini 1905, 1–22.

Ioannis de Columna (ca. 1298 – 1343/4). See Forte 1950; Ross 1970; Surdich 1982. For the De viris illustribus I consulted the ms. Vat. Barb. Lat. 2351 (f. 101r–v); for the Mare historiarum the Vat. Lat. 4963 (f. 102r).

Gulielmus Pastrengicus (ca. 1290 – 1362).

See Avena 1906; edition of the De viris in Bottari 1991.

Bottari 1991, 14 n. 26 points out that the definition of Accius as a comic poet is not reflected in other works of the time.

Bottari 1991, 180–181 (and 14) highlights the sources of Guglielmo da Pastrengo for the Plautine titles, but he does not find (or try to find) explanations for the erroneous ones.

Ca. 1375 – 1446. Ed. by Ullman 1928 (on Sicco Polenton see also Viti 1976).

I consulted the De honesta disciplina lib. XXV. De poetis Latinis lib. V et poematum lib. II cum indicibus suis, [Parisiis], ex Aedibus Ascensianis 1508, but the first printed edition is Florentiae 1505.

See Ritschl 1845, 65–66, Questa 1985, 266 n. 10; Cappelletto 1988, 60–61, 259 n. 7, 262.

Tontini 1996 and 2002.

This in is probably an error by dittography of inveni (see also Cappelletto 1988, 258 n. 4 on the same mistake in the ms. Vindobonensis 3168, descriptus of the Escorialensis and written by Pontano).

The Cornucopiae is preserved in the ms. Vat. Urb. Lat. 301, given by Perotti to Federico of Urbino and containing marginal corrections in Perotti’s hand. The first printed edition is that of Ludovico Odasi, Venetiis 1489, followed by that of Polidoro Virgilio of Urbino, Venetiis 1496; the most important are the Aldines of 1499, 1513 (from this edition onwards the Cornucopiae is printed together with Varro, Festus and Nonius), 1517 and 1526 (the latter with the addition of an index of Greek terms).

Oliver 1947.

Prete 1986 seems also to be thinking of a Nonius auctus.

Bertini 1967; 1981; 1982; 1983, 37–38; 1986.

See Gatti 1980.

Timpanaro 1952, 208–209 (the Plautine fragments are pseudosenarii of the type found in Piccolomini’s Chrysis).

See Oliver 1947, 405–410 and 417–424.

Dictionarium seu Latinae linguae thesaurus, Parisiis, Ex officina Roberti Stephani, 1531.

Forcellini 1940, II 524.

On Calderini see Dionisotti 1968; Timpanaro 1974; Campanelli 2001. On the false quotations see Dunston 1968, 144–149.

See Grafton 1983, 24; Pontani 2011, 93–96 (in general on Politian’s philology see at least Timpanaro 1981, 4–9; Fera 1990, 522–528; Grafton 1983, 9–44; Grafton 1991, 47–75; Wilson 2017, 115–128).

Miscellaneorum centuria prima, Florentiae, Ant. Miscominus, 1489 (I quote from Politian’s Opera omnia, Basileae, apud Nicolaum Episcopium iuniorem, 1553, 304).

The passage is quoted also by Dionisotti 1997, 26–28.

Politian re-uses the topos of comparing antiquarianism to the recovery of a shipwreck, whose origin is in the preface of Flavio Biondo’s Italia Illustrata (1453). No one who has taken an interest in the topos has noted Politian’s passage: Grafton 1983, 112 and n. 66; Kassel 1991, 243 = 2005, 7–8.

See Maïer 1966, 205 and above all Rizzo 1998, 85. We also know that on 12th May 1488, under the direction of Paolo Campanini da Prato, Politian staged in Florence, in San Lorenzo, the Menaechmi with a prologue composed by himself (ed. by Del Lungo 1867, 281–284; see also Bausi 1991 and Martelli 1995, 62–71).

See Rizzo 1986, 384–385, and now Rizzo 2016, 195–203.

Ed. by Rizzo 2016, 210–221.

Miscellaneorum centuria secunda ch. 25 (edd. V. Branca – M. Pastore Stocchi, Firenze 1972).

An additional second writing variant is papillulae (from papillae of the Plautine fragment) which replaces the first reading mamillulae.

In general for the critical work on classical texts (also in fragments) in the modern age see at least Dionisotti 1997, Heldmann 2003, and Vanek 2007, 198–206. On collecting Greek fragments from the second half of the sixteenth century onwards see Kassel 1991 = 2005.

On the history of the editions of Plautus, still worthy of consideration is the work of Ritschl 1868; see also Goetz 1894; Calderan 2004, 32–36.

The edition has no printer’s name, place, or date: see Ritschl 1868, 44–48. It is often called Galbiati’s Plautus, from the name of the amanuensis of Merula, Giorgio Galbiate or Galbiati.

Ritschl mistakenly believed that Charpentarius published the first edition of the Plautine fragments.

On Georg Goldschmied (named Fabricius) see Baumgarten-Crusius 1839; Kämmel 1877.

On Plautus and Camerarius see Ritschl 1877; Prete 1978; Stärk 2003; Schäfer 2004, 448–449.

M. Accii Plauti comoediae viginti, diligente cura et singulari studio Ioachimi Camerarii Pabepergensis emendatius nunc quam ante unquam ab ullo editae, Basileae, per Ioannem Hervagium [1552] (see Ritschl 1868, 99–113).

The rest of the quire is empty; perhaps the last comedy was missing even in the antigraph (for the whole matter see Calderan 2004, 9–10).

M. Accii Plauti comoediae viginti diligente cura Ioachimi Camerarii Pabepergensis editae. Accesserunt iam indicationes quoque multorum a Georgio Fabricio Chemnicensi collectae, Basileae, per Ioannem Hervagium et Bernhardum Brand, 1558 (see Ritschl 1868, 113–114).

On which see Vanek 2007. For Turnebus’ contribution to Plautus’ comedies see Clementi 2009.

He also edited a collection of Veterum Graecorum fragmenta selecta as an appendix to the second edition of his Opus de emendatione temporum, Leiden, Franciscus II Raphelengius, 1598.

Fragmenta Poetarum Veterum Latinorum, quorum opera non extant, [Genevae], Henricus Stephanus, 1564.

Iosephi Scaligeri Iulii Caesaris filii Coniectanea in M. Terentium Varronem de lingua Latina, Parisiis, ex officina Rob. Stephani typographi Regii 1565. From 1569 there were editions of Varro’s De lingua Latina by Agustín and De re rustica by Vettori together with the notes of Agustín, Vettori, Turnebus and Scaliger himself, containing the Coniectanea (which, however, for the text of De lingua Latina did not refer to the edition of Agustín but to that of Pomponius Laetus). The edition Genevae, Henr. Stephanus, 1573 contains about ten more pages on the De lingua Latina. I consulted M. Terentii Varronis Opera quae supersunt. In lib. de ling. Lat. coniectanea Iosephi Scaligeri. In lib. de re rust. notae eiusdem. Alia in eundem scriptorem, trium aliorum, Turn. Vict. August. Editio tertia, recognita et aucta, [Genevae, Henr. Stephanus] 1581.

M. Verrii Flacci quae extant et Sex. Pompei Festi de verborum significatione libri XX. Iosephi Scaligeri Iulii Caesaris f. in eosdem libros Castigationes recognitae et auctae, Lutetiae, Apud Mamertum Patissonium in officina Rob. Stephani 1576.

See also Coniect. p. 100 ad 6, 86: Quis enim antiquitatis studiosus his reliquiis non delectatur? Quanquam haec sunt, veluti ex magno naufragio parvae tabellae. Scaliger would also return to it in his Veterum Graecorum fragmenta selecta. However, in the use of Politian’s simile he was preceded by Jacob Hertel (Vetustissimorum et sapientissimorum comicorum quinquaginta, quorum opera integra non extant, sententiae quae supersunt, Graece et Latine collectae, Basileae [J. Oporinus 1560], [α 7v]).

See Grafton 1983, 118.

They were published by Nettleship 1893 and 1894.

See Grafton 1983, 118 n. 96.

Nonii Marcelli nova editio: additus est libellus Fulgentii de prisco sermone et notae in Nonium et Fulgentium, Sedani, Sumptibus Hadriani Perier 1614. The first edition is dated 1583.

M. Accius Plautus opera Dionysii Lambini Monstroliensis emendatus, Lutetiae, apud Ioannem Macaeum, 1576 (see Ritschl 1868, 117–124).

Ed. by Reves 1624, 284–285 and 133–135.

M. Accii Plauti fabulae XX. superstites, cum novo et luculento commentario doctorum virorum opera Friderici Taubmanni, [Wittebergae], apud Zachariam Schurerum bibliopolam, 1605 (see Ritschl 1868, 129–132).

M. Accii Plauti comoediae viginti superstites, studio et industria Friderici Taubmanni, Wittebergae, apud Zachariam Schurerum bibliopolam, 1612 (see Ritschl 1868, 137–139).

Probably the person from whom Scaliger expected an edition of the Plautine fragments was his pupil and friend Franciscus Dousa, Janus’ son, who published an edition of Lucilius, Lugduni Batavorum 1597 (on which see Grafton 1993, 391).

M. Accii Plauti comoediae viginti superstites, J. Philippus Pareus restituit et notis perpetuis illustravit, Francofurti, impensis Ionae Rhodii in cuius bibliopolio prostant, 1610 (see Ritschl, 1868, 132–137).

M. Accii Plauti comoediae viginti superstites, curis secundis Johannis Philippi Parei, Neapoli Nemetum, impensis haeredum Jacobi Fischeri, 1619 (see Ritschl 1868, 139­–146). The M. Accii Plauti Sarsinatis Umbri Fragmenta ex ruderibus antiquorum grammaticorum collecta, aucta et in ordinem multo quam antehac commodiorem nitidioremque redacta notisque illustrata, s.l., s.d., is a simple reprint of Pareus’ second edition, but it is of some importance in that it seems to be absolutely the first one of the Plauti fragmenta separatim impressa.

M. Accii Plauti comoediae viginti superstites, Philippus Pareus tertium recensuit, Francofurti et Hanoviae, Impensis Philippi Iacobi Fischeri, 1641 (see Ritschl 1868, 152–154).

M. Accii Plauti comoediae ex recognitione Jani Gruteri, [Wittebergae], apud Zachariam Schurerum, 1621 (see Ritschl 1868, 146–151).

Ein Milchregen für die Schatten des Umbrers

Lessing 1750/1989, 754, 37–755, 8.